mercoledì 30 settembre 2009

Lunetta della Basilica di San Zeno (Verona)


Il portale presenta una lunetta policroma (scolpita da Niccolò) di grande interesse. Questa raffigurazione indica un momento storico ben preciso, cioè la nascita del comune di Ve­rona (intorno al 1136): il vescovo San Zeno è infatti raffigurato nell’atto di consegnare il vessillo della città ai soldati comunali che dovranno difendere la giovane istituzione.
Nella lunetta, dunque, alcune scene dedicate alla storia cittadina di quei tempi. Vi è la consacrazione del co­mune veronese libero finalmente dalle servitù feudali verso l’impero tedesco. Al centro della lunetta si trova un San Zeno benedicente mentre calpesta il demonio che simboleggia il paganesimo scon­fitto, simbolo anche del coevo potere imperiale identificato come il male. Ai lati di San Zeno sulla destra i rappresentanti della nobiltà veronese e delle famiglie dei mercanti a cavallo (gli equites) e a sinistra i rappresentanti del popolo, in qualità di fanti armati (i pedites). San Zeno, nella scena, consegna una bandiera ai veronesi, una sorta di investitura di derivazione sacra, l’affresco è accompagnato da una scritta in latino: Il Vescovo dà al popolo la bandiera degna di essere difesa / San Zeno dà il vessillo con cuore sereno.

venerdì 18 settembre 2009

La Lettera di Papa Gelasio I all’imperatore d’Oriente Anastasio I

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«Vi sono due autorità dalle quali il mondo è retto: quella del Papa e quella dell’Imperatore, ognuna sovrana nel proprio campo e come tali non cumulabili nella stessa persona se non per opera del diavolo. Esse tuttavia debbono collaborare tra loro, perché ambedue derivano dallo stesso Dio [...]. Tuttavia, poiché l’autorità religiosa ha direttamente a che fare con il mondo soprannaturale, essa [...] è superiore a quella dell’Imperatore, anche se ciò non comporta una sua ingerenza nel campo delle realtà temporali».

Epistulae, XII, 2-3

domenica 13 settembre 2009

Quale il valore della storia?

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Quale posto ha la storia nella vita spirituale e sociale del nostro tempo, quale funzione assolve? [...] Non si professa la storia per la sua "utilità", quasi che essa potesse insegnare la perfezione tecnica e i giusti artifici. Si vuole conoscere il passato. Perché lo si vuole conoscere? C'è ancora chi risponde: per prevedere il futuro. Ci sono molti che pensano: per comprendere il presente. Personalmente, io non arrivo a tanto. Io penso che la storia cerchi di dare uno sguardo al passato in sé e per sé. Ma a che scopo? Il fattore finalistico, nella nostra sete di conoscenza, non può essere trascurato. Evidentemente, in ultima analisi, sempre allo scopo di "comprendere". Che cosa? [...] No, non si tratta della tempesta del fosco presente, ma del mondo e della vita nel loro eterno significato, nella loro eterna tensione e nella loro eterna quiete. [...] Noi ci rivolgiamo al passato per un desiderio di verità e per un'esigenza vitale. [...] Lo scopo da raggiungere non è trarre una utile lezione per un determinato caso che si verificherà nel prossimo futuro, ma trovare un punto fermo nella vita. Rendersi conto, sapere bene dove siamo, determinare la nostra posizione in base a punti di orientamento molto distanti nel tempo: questo è il lavoro dello studioso di storia.

J. Huizinga, La scienza storica, Laterza, Bari 1974, pp. 89, 98, 107, 109.

La storia e il documento

La storia si fa, senza dubbio, con documenti scritti. Quando ce n'è. Ma si può fare e si deve fare senza documenti scritti, se non ne esistono. Per mezzo di tutto quello che l'ingegnosità dello storico gli consente di utilizzare per fabbricare il suo miele, in mancanza dei fiori normalmente usati. Quindi con parole. Con segni. Con paesaggi e con mattoni. Con forme di campi e con erbe cattive. Con eclissi lunari e con collari da tiro. Con le ricerche su pietra, eseguite da geologi, e con analisi di spade metalliche, compiute da chimici. In una parola, con tutto quello che, essendo proprio dell'uomo, dipende dall'uomo, serve all'uomo, esprime l'uomo, significa la presenza, l'attività, i gusti e i modi d'essere dell'uomo. Non è forse vero che una parte, e quella più appassionante senza dubbio, del nostro lavoro di storici consiste nello sforzo costante di far parlare le cose mute, far dire loro quel che da sole non dicono sugli uomini e sulle società che le hanno prodotte, fino a costituire fra loro quella vasta trama di solidarietà e di ausili reciproci, capace di supplire all'assenza del documento scritto?

L. Febvre, Problemi di metodo storico, Einaudi, Torino 1976, p. 177.